Oggi è il giorno in cui arriva Miwa, l’amica che ho più cara in questa terra. Resta a dormire per la prima volta e la casa diviene a poco a poco quanto sognavo, ovvero un luogo di accoglienza.
In Giappone non c’è propriamente l’abitudine di chiamare gli amici a casa, in buona parte perché si dosa, in un regime di reciprocità, il timore di arrecare disturbo e la preoccupazione di non essere in grado di accogliere al meglio, in parte perché la propria dimora è il luogo del rilascio della tensione e si vuole conservare uno spazio completamente dedicato alla sostanza, al gusto personale, alla mancanza di forma.
Eppure, in questo io mi scopro profondamente italiana e noto che, in questa zona del Giappone, invitare gli amici in casa propria è più frequente. Non sono un animale sociale, tendenzialmente preferisco la solitudine alla compagnia, ma organizzare occasioni di incontro è una immensa gioia. Credo sia anzi proprio perché mi trovo a disagio in una folla di amici di amici di amici di cui non conosco che vagamente la faccia, che preferisco inventare da me la socialità: a pensarci bene è anche una maniera di delimitarla.
Ricordo quando, ancora universitaria, preparavo serate nell’appartamento in cui vivevo da sola, ognuno che sul mio frigorifero disegnava tre riproduzioni di animali (mai visto elefanti, pecore e giraffe più brutti) e, ancora prima, le cene e le occasioni di incontro che allestiva mia madre per noi bambine e per suo marito: le feste di compleanno, le cene con i colleghi di mio padre, i suoi ex compagni del liceo.
Mia madre, però, la ricordo soprattutto in affanno, in mente ho la sua fatica e il nervosismo più che la gioia di avere gente in casa. Oggi mi domando se sarebbe cambiato qualcosa se le riunioni familiari avessero coinvolto i suoi parenti, se gli amici o gli ex compagni fossero stati i propri…
L’eredità, tuttavia, è qualcosa che si trasforma. I soldi ricevuti dalla vendita della casa di mio padre sono divenuti questa dimora, l’ansia di mia madre è diventata l’attenzione ossessiva che nutro per ogni minuscola (e bellissima) cosa. Proprio come un arbusto, si pota il proprio albero genealogico, e di esso i rametti secchi, i funghi che ammalano il tronco.
Così, in questa dimora che a poco a poco sta cambiando – ancora un po’ di scatoloni, mobili mancanti, giardino cui vanno aggiunti molti alberi e cespugli – invitiamo gli amici, ci apriamo a storie, abitudini altrui.
I due pruni, intanto, sono completamente sbocciati di bianco e rosa intenso. E io, scorrendo gli occhi su tutto quanto abbiamo condiviso in questi sette giorni su Instagram e Facebook - il kanji di persona 人, i daruma 達磨 (che troneggiano sulle scale di casa nostra), quanto “lasciare andare” si possa imparare, il mio esordio che risale esattamente a 10 anni fa con Tokyo Orizzontale, le 72 stagioni del Giappone, e un haiku che spiega come il silenzio possegga tutte le risposte – mi sento così fortunata.
Chissà che potando con decisione il mio albero genealogico io non mi sia messa nella condizione di poter accogliere tanti innesti diversi, sconosciuti di cui negli anni ho appreso i nomi e leggo i commenti, i racconti e che leggono i miei libri, i miei pensieri pubblici.
La primavera sta davvero arrivando,
Laura