Il sumō del pianto
Certi giorni dell’anno, in una manciata di santuari shintoisti sparsi per il Giappone, si vedono transitare corpi enormi e seminudi, fatti di muscoli e marmo. Sono i lottatori di sumō che solo l’impassibile sicurezza dello sguardo, la posa superba e sfrontata del volto, e soprattutto la loro straordinaria moltitudine concentrata nel recinto del santuario, fa sì che non li si reputi fuori contesto. La motivazione sta in un evento tenerissimo eppure antico, denominato il «sumō del pianto» (naki-zumō da naku che significa “piangere”). Questa tradizione distende radici lunghe quattrocento anni nella storia del paese, in cui si tramanda che il pianto dei bambini porti fortuna e benessere ai piccoli protagonisti del rito, alle loro famiglie e alla comunità intera. La leggenda narra che in un tempo remoto accadde un evento straordinario: gli strepiti di un bimbo allontanarono il demonio e purificarono dal maligno il mondo.
Anche oggi, nel larghissimo perimetro di Tōkyō, si può assistere alla cerimonia che vede mastodontici lottatori di sūmo abbracciare con le manone la vita minuscola di bimbi (femmine e maschi) di due anni massimo e farli affrontare nel recinto del dohyō (ring). Basta andare al Yukigaya Hachiman nel distretto di Ōta a fine aprile oppure, all’inizio di maggio, a Chōfu, nel santuario di Kokuryō, o, come abbiamo fatto noi un paio di anni fa, a Hayama, nel Kanagawa, dove sorge il santuario Morito-jinja. Tenevo, infatti, a che la nostra famiglia, composta da madre italiana e padre giapponese e due bambini nati nella mescolanza, ne facesse esperienza.
Una settimana prima dell’evento giunge per posta il biglietto di partecipazione, accompagnato dalla richiesta di attribuire un nome da lottatore al bambino. Ogni atleta di sumō ne possiede uno. È shikona, ovvero il «nome di battaglia», che spesso si crea a partire dalla morfologia del territorio in cui è nato il rikishi, il lottatore. L’eco delle montagne, dei mari e dei fiumi dei luoghi d’infanzia accompagnano negli anni i suoi successi e le sue sconfitte.
Quel nome inventato viene trascritto sul cappello di carta (kabuto) che viene consegnato all’arrivo al santuario. Sarà indossato insieme a quella sorta di mutanda impreziosita da fantasie tradizionali che vestono i lottatori di sūmo (keshō-mawashi), e che viene accompagnata dalla spessa corda intrecciata alla vita e che è tinta dei due colori benauguranti per eccellenza, cremisi e bianco (kōhaku-zuna). Sotto a questo apparato che rende d’improvviso serissimo il rito, i piccoli tengono solo il pannolino. Si accede poi a una sala del santuario dove genitori e bambini si siedono, in attesa del kannushi, il prete shintoista che si rivolge alle divinità perché i bambini crescano forti e vivaci e prega affinché non manchi loro e alle rispettive famiglie energia e salute.
Segue una successione rapida di azioni che vengono accolte con fastidio dai bambini e con un misto di senso di colpa e gioia dai genitori (i quali sanno di star creando una importante memoria e insieme uno stress intenso, per quanto di breve durata, ai figli).
Con dell’inchiostro scarlatto si tinge la manina del bimbo, si crea l’impronta sul foglio ufficiale e, con il rosso ancora spalmato sul palmo, il piccolo viene issato su un grande tamburo per uno scatto. Ed ecco infine arrivato il momento: si entra nella stanza del dohyō dove, a due a due, bambini che non si conoscono affatto vengono consegnati ai rikishi. Nel mezzo del cerchio l’arbitro con il tipico copricapo nero e l’abito arancio (gyōji) annuncia il nome delle due piccole «montagne» che si affronteranno. Tra le manone dei lottatori i bambini vengono fatti fluttuare in aria, fino quasi a scontrarsi, mentre intorno tutti incitano «Miatte miatte!» ovvero «guardatevi!». Se nel sūmo ci si affronta con il corpo, nel «sūmo del pianto» sono gli sguardi a scontrarsi, e quanto più alte sono le grida quanto più beneaugurale risulterà il rito. Per questo, nonostante se la ridano vistosamente sotto i baffi, arbitro e atleti urlano e fanno boccacce per spaventare le minuscole montagne. Dura solo un minuto, ma per le madri è un tempo infinito. Alla fine, sollevati al soffitto al grido di Banzai!, vengono accomodati sulle ginocchia dei lottatori per sancire la fine.
È nello scarto tra l’enormità dei corpi degli uni e la microscopicità degli altri che sta la meraviglia, in quella sproporzione che fa risaltare l’eccezionalità di entrambi; così anche l’attitudine dei partecipanti, la serietà anche disperata dei piccoli opposta alla bonarietà allegra dei grandi. Ciò che vince però non è il bambino né il genitore, né il lottatore né il santuario. Ciò che vince è la tradizione.
(Articolo scritto per Repubblica e pubblicato tempo fa - nel capitolo di Settembre di «Tokyo tutto l'anno » (Einaudi) trovate invece il racconto dettagliato di quando il nostro piccolo Emilio fece quest'esperienza 🎋)