È un sabato di gennaio che sa d’autunno appena iniziato o di primavera che corre. Sono 17°C in questa parte del Giappone, l’oceano Pacifico a un passo e un vento fortissimo che sale dal fondo.
I ricordi del computer mi ripropongono, di questi tempi, solo due anni fa la neve.
La newsletter di oggi è, eccezionalmente, il racconto integrale del pezzo uscito per Repubblica su Perfect Days di Win Wenders qualche giorno fa, e l’accenno a quanti argomenti sono usciti dai social - come foglietti scappati da una borsa o dalle pagine di un vecchio libro.
Si è parlato di «cadere», dei tanti modi che convergono poi nel «cadere in amore»; del vantaggio eccezionale di crescere in due lingue, in quanto si apprende su di sé l’imperfezione; delle possibilità che dona un trasloco perché «dopo un trasloco ci si affanna a riprendere le abitudini, anzi mi pare che ciò determina la buona riuscita dell’impresa sia proprio lo spazio per le vecchie consuetudini che si ricrea, e quanto prima accade, quanto meglio si avvera. Accade lo stesso nelle relazioni, quando si è certi di ciò che si vuole o non vuole e in un nuovo compagno si cerca quella piccola lista di cose. Ma poi, se ci si lascia un piccolo spazio di casualità, ecco l'avanzamento, la crescita». E del valore del prestito, una di quelle parole che vale la pena esplorare per meglio accettare l’essere proprietari di nulla ma, inquilini di tutto, di come «nel non farla propria ma nell’attraversarla, qualunque cosa si arricchisca» e di come al prestito tutto sia soggetto, «a cominciare dalla terra che abitiamo, dall’amore che riceviamo; le relazioni, anzi, sono giuste nel prestito più che nel possesso».
Per i discorsi sviluppati sapete già dove andare, così come sapete che lì potete sempre posare le vostre parole.
Ora uscirò dal caffè per tornare a casa, passando dal mare, per godermi queste strane temperature e pensare. Mai come oggi mi sono fermata a pensare, tanto da cadere dentro un gorgo di idee.
Risalendo a fatica vi abbraccio da qui~
Laura
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Perfect Days
(Repubblica, 4 gennaio 2023)
«È tutto così normale in questo film… è girato da Wim Wenders ma è quasi perfettamente giapponese» ho pensato uscendo da una sala affollata in un piccolo cinema di Tōkyō. È, né più né meno, ciò che ho sotto gli occhi ogni giorno in questa città, i tanti addetti alle pulizie che incontro, ognuno che svolge il proprio lavoro con una cura che in occidente sarebbe impraticabile, che poggia uno straccio sul corrimano di una scala mobile, nonostante dopo un momento qualcuno la toccherà. Per questo, quando ho saputo che Perfect Days è stato candidato agli Oscar 2023 come miglior film straniero giapponese e non tedesco, non mi sono stupita.
Il protagonista, Hirayama, è un uomo di mezz’età che pulisce i bagni pubblici di un quartiere di Tōkyō e la narrazione sovrappone una dopo l’altra le azioni che compie in un giorno: svegliarsi, lavarsi i denti, dare l’acqua alle piante, prendere una lattina di caffè al distributore, salire sul furgoncino, mettere su una audiocassetta, guardare l’alba salire su Tōkyō, lavorare pulendo alla perfezione alcuni bagni pubblici del quartiere di Shibuya, tornare a casa… Pare lo stesso giorno replicato all’infinito eppure, nel guardare più da vicino, nel portare la telecamera così prossima al volto del protagonista e delle persone con cui interagisce o passa accanto, tanto che talvolta sembra di oscillare insieme a loro, ecco che ci si accorge che accadono infinite cose minuscole, che le vite di chi abbiamo intorno non sono mai le stesse, che persino le medesime azioni ci causano via via emozioni diverse. Il segreto di quest’uomo dal passato misterioso, e del modo in cui Wim Wenders lo racconta, è spezzare la massa compatta di un giorno, smontarne la dicitura aprendo le ore, spezzandole in istanti.
Non ci sono sviluppi drammatici in Perfect Days e molti misteri rimangono tali oltre la fine. Non veniamo a sapere con chiarezza cosa abbia spinto Hirayama a lasciarsi alle spalle una famiglia di privilegi e ricchezza per assumere quell’impiego tanto umile; chi sia la donna che mangia sulla panchina vicina, le vicende del monaco che gli permette di adottare qualche piantina; o ancora che vita conduca la proprietaria della libreria dell’usato in cui lui periodicamente si reca. Di nessuna delle moltissime persone che Hirayama incontra non abbiamo che l’istante in cui le vite si toccano e subito si distanziano con uguale delicatezza. Pare un costante succedersi di incontri e congedi, ed è proprio questo, alla fine, a risultare avvincente. Ci si affeziona al personaggio e ai suoi inconsapevoli compagni di viaggio, si vuole sapere di più della vita tout court, della capacità di quell’uomo di sorridere a un ramo che oscilla o a un bambino che cerca la mano della mamma. Si apprende così che quando si ascolta a fondo ciò che ci accade intorno, quando si accetta di non essere protagonisti (e nel non esserlo, non avvertire svantaggio), quando ci si “accontenta” di vivere una vita alla volta, ecco che tutto ci parla, tutto riacquista senso. Anche la tautologia, che spesso in Perfect Days ritorna, ci insegna: «Adesso è adesso, la prossima volta è la prossima volta», ripetono zio e nipote, disegnando virgole a cavallo di biciclette scalcagnate su una delle strade dei quartieri tutti edifici e sopraelevate di Tōkyō.
Tutto spicca nell’assenza, come gli oggetti di arredo in una dimora tradizionale, dove è il vuoto a farla da padrone. Alla stessa maniera, in Perfect Days, un film girato in soli 17 giorni miracolosi, Wenders affida una espressività pienissima a Yakusho Koji (vincitore a Cannes come miglior attore protagonista) che tuttavia non dice quasi nulla; eppure, quando infine dice qualcosa, quel qualcosa risuona e risalta. È il segreto della cultura di questo paese: dire di meno, per significare di più.
I giorni perfetti di Hirayama paiono usciti dallo storico volume Storia della vita a Tokyo di Kishi Masahiko (1967~) sociologo di punta del panorama contemporaneo, che si è concentrato su un filone di ricerca che mira a spiegare la città attraverso il racconto nudo delle persone che la abitano, interviste a gente comune le cui storie sono state registrate fedelmente nei toni e nel linguaggio. In Europa, Pierre Bourdieu, attraverso interviste a tappeto, aveva narrato nel 1993 la miseria della Francia: di vite minime in vite minime (operai, custodi di edifici, adolescenti), si apprese il disagio generale, l’arazzo di un mondo che pareva definito da grandi eventi ma era invece fatto di gente senza nome. Così, in letteratura, fece Pierre Michon, esordendo nel 1984 con un libro intitolato Vite minuscole in cui, nella tradizione delle biografie e agiografie dei classici greci e latini, raccontava con lingua ricchissima non più vite illustri, ma vite dimenticate, esistenze così secondarie da scivolare fuori dalla Storia. È ciò che fa Wim Wenders in Perfect Days, dove tutte le vite sono minuscole: quella del protagonista, della nipote che scappa di casa, del ragazzo scapestrato che affianca nella pulizia dei bagni pubblici Hirayama, della sua fidanzata che si commuove ascoltando in macchina una vecchia audiocassetta, della donna che in kimono che lo serve nello snack bar dove lui si reca per fare esperienza di un preciso tipo di bellezza. Ma la bellezza è anch’essa un concetto plurale e il protagonista la ferma nel luccichio della Sky Tree, nel foglietto che qualcuno – chissà chi - infila in un pertugio del bagno perché qualcuno giochi a tris con lui, o ancora nel sorridente gestore di una bettola sotterranea dove va a mangiare, nei due anziani che si immergono nudi nella medesima vasca delle terme pubbliche.
Nessuna risposta viene pretesa in Perfect Days, nessuno scioglimento finale si attende, nulla per forza si schiude. Se anzi si è assorbito abbastanza dalla visione di questo bellissimo film, si dovrebbe essere infine compreso che il segreto dell’esistenza sta proprio nel contenere il desiderio, delimitare l’ambizione. Che, anziché sull’ampiezza, serve lavorare sulla profondità. In questi giorni, il Giappone ha alle spalle i 108 rintocchi del Capodanno tradizionale, quando le campane vibrano nei templi di tutto il paese liberando a ogni colpo gli uomini da una delle passioni che turbano il loro cuore. Lo zen lo insegna, che non è dal dolore che serve fuggire ma dal desiderare, a conferma che è nella sottrazione, nella limatura del desiderio che esiste l’unica felicità possibile.
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