È setsubun 節分, il giorno degli orchi, dei fagioli, delle favole di protezione e dei bambini che imparano la paura, quella che ha un tempo e finisce.
È stata una settimana in cui ho capito che la scrittura – come scrivevo giorni fa – va protetta, eppure questa volta in una maniera diversa. Va protetta dalla fretta, dall’ansia di chiuderla, perché essa vive della larghezza, di campi sterminati in cui non serve percorrerne ogni centimetro, basta che esistano e che lo sguardo li possa abbracciare. Rallento allora, nella scrittura che mi stava aiutando a fare troppe cose: articoli, podcast, radio, progetti di ricerca altra.
È la responsabilità che conduce con sé il romanzo, che ho iniziato il 1 febbraio e che questa volta intendo far camminare un poco più lento. Serve si mescoli all’altra scrittura, quella dei progetti che si accavallano intanto e che richiedono tempi lunghissimi, di struttura.
Questa creatura, che nasce lenta, deve raccogliere tutta la mia cura. Come il nome della protagonista che è emerso, spuntando come un fiore selvatico in un giardino, nell’angolo più buio e imprevisto: Risa. Si chiamerà Risa. Così ogni scena, che già d’un tratto, come fosse sempre esistita, mi visita mentre faccio la spesa, mentre cammino per la strada e saluto la madre di Rika-chan, vedo un bambino fare i compiti con la madre accanto, al doposcuola di Emilio ne osservo un altro con la nonna che, nonostante la stazza, lo tiene in braccio, mentre leggo il giornale e scopro un evento di cronaca estivo, di una prefettura lontana dal Kantō, che già ieri è divenuto l’incipit del romanzo.
Non riesco tuttavia a sottrarmi al desiderio di condividere pezzi di vita con persone che mi sono sconosciute e – proprio per questo – preziose. Ciò che è sconosciuto è prezioso, così come le persone che mi sono estranee, perché ne assorbo con più nettezza le parole, ciò che mi vogliono dire, senza che tutto un vissuto condiviso mi influenzi nel giudizio. I corsi di scrittura – che sono soprattutto percorsi di lettura e pensiero – sono questo per me. Oggi se ne chiuderà uno, dei cui partecipanti ho letto con ammirazione gli elaborati nei giorni scorsi, e le iscrizioni per quello di maggio-giugno, sempre online, sono ormai chiuse. Sorrido quando gli organizzatori di quello estivo ad agosto in Trentino – la prima volta in assoluto per me – mi dicono che le persone sono deliziose.
Sorrido perché, personalmente, ho a che fare ogni giorno con persone così, con chi mi legge e che, insieme a me, questa settimana ha riscoperto le parole che stanno dietro ai nerini del buio, quelli dei film dello Studio Ghibli, grazie alla lettura di alcune pagine (che ho amato tantissimo scrivere) de «Il Giappone a colori» (Einaudi) e che altro non sono, in traduzione, che “i nerissimini”; il giorno seguente, domenica, ci ha ricordato la storia di resilienza dietro alla rosa di Anne Frank che, grazie a un lunghissimo viaggio e alla determinazione di molte persone è arrivata fino al giardino di Bell Gardia, dove c’è la cabina del Telefono del Vento. Lunedì, invece, come prendendoci cura della settimana che prendeva avvio, abbiamo esplorato il verbo mimamoru 見守る che il dizionario traduce come «guardare con attenzione», ma è molto di più. Basta scomporlo, perchè in esso miru 見る è «guardare/ vedere» e mamoru 守 è «proteggere». […] Quando non si può fare nulla, è allora come un vegliare. Guardare (miru 見る) del resto è in giapponese un occhio con le zampe, proteggere (mamoru 守る) ha un tetto sulle spalle. Martedì, grazie a uno stralcio da «L'isola dei battiti del cuore» (Piemme) - che sta per uscire anche in Francia, Polonia, Spagna e ho avuto notizia che uscirà anche in lingua araba – abbiamo riflettuto su come si possa voler bene anche a chi ha sbagliato, su come il giudizio non sia la risposta all’errore. Serve voler bene all’umanità.
Mercoledì ci siamo ribaditi la forza, grazie a un detto raccontato in «Wa, la via giapponese all’armonia» (Vallardi) «Nanakorobi yaoki 七転び八起
«Cadi sette volte, otto volte ti rialzi» che serve ribadirsi ogni volta che si sbaglia e si ha paura di non riuscire a riprendersi più. Perché, davvero, «basterebbe un po’di lungimiranza e insieme una realistica osservazione del passato: dietro a un successo quanti fallimenti ci sono? Quante volte abbiamo dovuto sbagliare prima di riuscire? Quanti incontri rovinosi prima che arrivasse il grande amore? Nessuno ce lo insegna, forse perché si teme di deprimere chi tenta. Eppure, ci sono assai più fallimenti che successi nella vita, e chi quei fallimenti ha finto di non vederli, chi ha preferito archiviarli frettolosamente per passare oltre, spesso non sa come riprendere il cammino quando gli capita di perdere la strada».
Giovedì è arrivato il nuovo mese e la spiegazione ormai abituale, tratta da «Tokyo tutto l'anno» (Einaudi) , dei tantissimi significati che abbia febbraio.
Colgo l'occasione allora per ricordarvi che, per i corsi online che faccio durante tutto l’anno dal Giappone (in media uno ogni quadrimestre), dovete scrivere alla segreteria dei miei corsi (infocorsi.lauraimaimessina@gmail.com), Cristina vi risponderà.
Torno a scrivere il romanzo.
Buon fine settimana a voi,
Laura