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Di certo lo hanno studiato in psicologia il meccanismo che io chiamo «Il paradosso di Tōkyō» per cui quanta più gente hai intorno quanto più solo ti senti. Tōkyō non faceva chiasso, non parlava ad alta voce, nei treni c’era silenzio, un silenzio che mi pareva sbagliato, come fosse successo qualcosa e nessuno che si prendesse il disturbo di spiegarmelo. Solo gli annunci si sentivano netti, in giapponese e in inglese, e in sottofondo o sopra, nessun altro suono a disturbare la voce femminile che recitava il nome delle fermate, l’indicazione dell’apertura delle portiere o della suoneria silenziosa da impostare, insieme alla premura di ricordare, in un giorno di pioggia, di non dimenticare a bordo l’ombrello.
♬ Annunci della Yamanote
Eppure, la gente non mancava mai per le strade, nei negozi, fuori e dentro, in ogni quartiere, mai viste tante persone in un metro quadrato, mai visti palazzi tanto vicini gli uni agli altri, tanto che aprendo la finestra ci si affacciava o su un muro o sulla casa del dirimpettaio, oppure viaggiando a bordo di un treno si entrava con lo sguardo nelle case di decine di migliaia di persone, indifferenti al suo passaggio.
Ricordo una donna a Odaiba, una zona che è stata strappata letteralmente all’oceano e costruita sull’acqua perché Tōkyō potesse crescere ancora. È una zona di niente e di tutto, insieme: vicino alle stazioni trovi giganteschi centri commerciali, mastodontici palazzi della televisione, ciclopici parchi divertimenti, titaniche ruote panoramiche, smisurati spazi espositivi per fiere e installazioni d’arte impossibili da ricreare altrove. Eppure, allontanandosi gradualmente, non c’è niente, niente, non c’è assolutamente niente. Se va bene trovi al massimo palazzoni grigi, file di alberi che paiono altre striminzite installazioni. Ma poi superi un altro isolato ed ecco di nuovo tutto. Gente che sembra traboccare come acqua da un vaso.
E proprio lì, nel bel mezzo di una folla oceanica, che mi pare fosse riunita lì per una qualche fiera del fumetto o dell’animazione, c’era una panchina e sulla panchina una donna visibilmente malata, una senzatetto con la pelle coperta da croste di sporcizia, i capelli così lerci da essere una massa compatta, i vestiti strappati e lisi, un sorriso perso nel nulla. L’odore che rilasciava era pungente eppure, a pochi centimetri di distanza, una coppietta rideva di loro discorsi, leccava un gelato, lei con un vestitino estivo giallo, lui evidentemente innamorato. È stato lì, in quel preciso momento, che ho capito che la vera solitudine di Tōkyō è nello sguardo. Quando non ti guarda nessuno, e a Tōkyō nessuno ti guarda, ecco, quando nessuno conferma la tua presenza con uno sguardo, non esisti. E se anche esisti sei solo, completamente solo anche in una folla di decine di migliaia di persone.
♬ Dialogo e pezzi del film
C’è una scena di Tōkyō Monogatari (1953) di Ozu Yasujirō che impressiona sempre moltissimo a rivederla. La trama è sottilissima, come piace a me. Una coppia di anziani si reca nella capitale per un primo e ultimo viaggio. Salendo sulla Tōkyō Tower, la torre rossa della città, allora l’unica tanto alta, la donna si rivolge al marito e dice: – Guarda quanto è grande Tōkyō. Se ci perdiamo, non ci ritroveremo mai piú.
L’aver condiviso una vita, l’aver avuto persino cinque figli, non conterebbero nulla, l’immensità della città comunque li ingoierebbe e loro non si rincontrerebbero piú. Senza l’aiuto di cellulari, di navigatori o di persone, privi di punti di riferimento, accadrebbe ovunque probabilmente, ma a Tōkyō l’evidenza è schiacciante: mettici l’assenza di nomi per quasi tutte le strade, la vaga somiglianza delle zone e delle viuzze, la familiarità ambigua che comunicano le stazioni, i trentasei milioni di abitanti.