1.
La memoria di Tōkyō inizia per me un giorno di luglio. Avevo ventitré anni. Dopo una traversata di dodici ore, partendo da Roma, mi emozionai in discesa verso l’aeroporto di Narita, scorgendo dal finestrino il Monte Fuji: lo presi come un segno beneaugurante, una sorta di benevola accoglienza. A distanza di anni, tuttavia, mi domando se quella mattina di luglio io abbia visto davvero il Fuji-san – d’estate la montagna si nasconde praticamente sempre e non c’è motivo per cui in un giorno tanto umido e afoso avesse dovuto mostrarsi.
Forse è questo il vantaggio di chi, come me, non ha una buona memoria: si finisce per credere, per convincersi anzi, che non si potrà mai possedere nulla di vero e quindi, naturalmente, non ci si sente in colpa a inventarsi la realtà, la propria storia e la propria memoria.
Quel primo anno di Giappone andavo ufficialmente a studiare la lingua. Vissi in casa di una famiglia, i signori Kusama, lei era casalinga ex insegnante di pianoforte, lui oncologo vicino alla pensione, una cagna labrador nera, e infine una gatta (Hana) che viveva al secondo piano, un secondo piano in cui però non salii mai – adesso so che quella casa è stata demolita, che i signori Kusama si sono spostati in una zona diversa di Tōkyō e io di quel secondo piano e della gatta non avrò mai memoria.
Ero arrivata una settimana prima dell’inizio dei corsi universitari, così da abituarmi al fuso che allora era di sette ore in avanti. Passarono i primi giorni, ma io restavo ferma. C’era una frase che mi veniva dietro ogni volta che mi mettevo su un treno e cercavo di fare una passeggiata in quella città che, a differenza dei miei colleghi di corso a Roma, avevo iniziato a immaginare in ritardo, che già ero adulta: «La gente è ovunque» mi ripetevo. «La gente è ovunque: dove mi giro c’è sempre qualcuno che non conosco, qualcuno di cui non so nulla». Qualcosa però, in quelle passeggiate, mi faceva subito tornare a casa, mi spingeva a riprendere la strada da dove ero venuta, a rientrare nel quartiere di Musashi-sakai e a chiudermi nella mia stanza. Ero ammirata da quella folla straordinaria, confusa dal traffico umano delle stazioni, dalla velocità con cui si muovevano tutti, ammirata e rapita di una confusione che allora non mi addolorava ancora.
♬ Qual è la definizione di solitudine nella tua lingua?
(voce di Ryosuke, pagine di un dizionario che girano, carta)
1 仲間や身寄りがなく、ひとりぼっちであること。思うことを語ったり、心を通い合わせたりする人が一人もなく寂しいこと。また、そのさま。「—な生活」「天涯—」
2 みなしごと、年老いて子のない独り者。
Poi l’università iniziò. Feci il test di ammissione e mi inserirono in un corso di giapponese. Avevo studiato disperatamente, sapevo scrivere più kanji della ragazza cinese che mi sedeva accanto eppure, ogni volta che mi trovavo di fronte all’insegnante, perdevo coraggio. Parlava, sorrideva e dava comandi in una lingua che all’improvviso mi pareva diversa. Possibile che fosse la stessa che avevo studiato a Roma? Cosa avevo imparato in Italia? Davvero era la stessa lingua?
Da quasi vent’anni ho nella mente la traccia di un racconto in cui il protagonista è l’insegnante di una lingua semi-sconosciuta, in un paese remoto dove non si ha accesso ad altro se non alle parole di quell’insegnante. Solo che, anziché insegnare la lingua, quel professore viene preso da una strana cattiveria o forse da un atto poetico, e allora si mette a insegnare la grammatica, il lessico e la sintassi di un idioma mai parlato prima, completamente inventato. Gli studenti, comunque, si mettono a impararla e finisce che tra di loro si capiscono, fino a renderla vera. È un racconto che non ho mai scritto, ancora possibile in fondo.
Era come la sensazione di stare in una sorta di solitudine esistenziale, uno stato di sospensione in cui gli altri ti vedono collocato in un luogo ma tu, veramente, non sei da nessuna parte. Non capivo nessuno e nessuno mi capiva. Ciò che provavo in quei giorni è ciò che avrei provato uguale anni dopo, sempre a Tōkyō, sempre in un’aula universitaria, quando mi trovai d’un tratto dall’altra parte della cattedra, domandandomi come ci fossi finita e interrogandomi soprattutto sull’enorme potere che mi era stato consegnato: insegnare una lingua a ragazzi che di quella lingua non sapevano nulla.
«La gente è ovunque» mi ripetevo in quei primi giorni. «La gente è ovunque» avrei continuato a pensare per mesi, per anni. Eppure, mai come a Tōkyō mi sarei sentita sola.
♬ Saycet, Circonflex
(minuti fino a 1.44 e fino a quando si spengono le voci delle bambine)
°Prima parte della città invisibile scritta, ideata anche sonoramente e letta per l’omonimo programma della Radio Svizzera Italiana e disponibile QUI